La Parola di Dio di questa domenica ci lancia un messaggio devastante verso il nostro diffuso ed elitario perbenismo religioso fatto più di parole e devozioni assortite che di testimonianza coerente e concreta. La prima lettura tratta dal Siracide ci presenta l’aspetto paterno di Dio verso coloro che, soprattutto oggi, sfuggono alla commedia dell’apparire e vivono tra le pieghe della nostra società, perbenista ed ipocrita, passando inosservati agli occhi accecati dal potere, dai soldi e dalla loro infinita autoreferenzialità. A differenza nostra Dio coglie i bisogni del povero, dell’orfano e della vedova che vivono ai margini della società nella povertà , nel silenzio e nel disinteresse dei detentori del potere e della ricchezza.
Costituiscono l’immensa schiera che la sociologia moderna etichetta come “drop out”. Non imprecano, non pretendono, non devastano. Si limitano a pregare, a supplicare, a chiedere giustizia avendo fiducia solo in Dio.
E Dio che capta e vede il disagio del povero, non tenendo conto dei suoi eventuali meriti ma dei suoi bisogni, ascolta, non parziale, interviene rendendo soddisfazione alla supplica che buca le nubi e colpisce il suo cuore.
La fede consiste nel calare e radicare la misericordia divina nel nostro comportamento. Paolo, nella seconda lettura, testimonia un meraviglioso identikit del genuino cristiano: al termine della corsa della vita, l’unica cosa che conta si può sintetizzare nell’aver combattuto la buona battaglia e conservato la fede vivendo quanto il Vangelo ci ha trasmesso.
Il brano evangelico ci presenta due modi opposti di rapportarci con Dio: quello del fariseo e quello del pubblicano. Il fariseo fa sfoggio del suo perfettismo perbenista: digiuna, osserva tutti i 613 precetti e i 1521 divieti che appesantiscono il sabato, paga le decime non solo sul bestiame, come impone la legge, ma anche su tutti i suoi averi. Vive ossessionato dall’osservanza nevrotica dei minimi dettagli imposti dalle leggi ed e’ oppresso dalla paura dell’impurità legale.
È tronfio del suo perbenismo, dell’essere diverso dal prossimo e dal povero pubblicano esattore delle tasse e ladro compulsivo, incapace di riparare ai suoi furti, destinato, di conseguenza, alla Geenna. Conscio di questo, il grande peccatore che si riconosce ladro, imbroglione, impuro perché a servizio dei romani e quindi adultero in quanto traditore del popolo d’Israele, con gli occhi bassi sussurra la sua supplica verso l’Altissimo: «O Dio abbi pietà di me sono un povero peccatore» (Lc 18, 13). Il Signore fulmina i farisei di allora ed i benpensanti moderni con una frase che annichilisce e disintegra tutti i perbenismi e moralismi di ogni epoca: «Vi assicuro che l’agente delle tasse tornò a casa perdonato: l’altro invece no» (Lc 18, 14).
Ritornando a casa ci riconosciamo, davanti a Dio e nel silenzio della nostra coscienza dove non possiamo mentire a noi stessi, farisei o pubblicani?
MEDITAZIONE
La Scrittura, quando letta e interpretata nella fede, è rivelazione di Dio all’uomo e dell’uomo a se stesso. Nella Scrittura, lì dove essa è rivelazione che Dio fa dell’uomo all’uomo, troviamo anche le patologie dell’umanità: sia quelle che feriscono i rapporti dell’uomo con gli altri uomini, o con il creato; sia quelle che feriscono il rapporto dell’uomo con Dio.
Il rapporto uomo-Dio
Un esempio di quest’ultimo caso è dato dal versetto che precede quello con cui inizia la prima lettura di questa domenica: «Non corromperlo [Dio] con doni, perché non li accetterà, e non confidare in un sacrificio ingiusto» (Sir 35,14-15). Il Siracide ammonisce il credente che a nulla vale cercare di ingannare Dio. Egli non si lascia comprare da doni; non si lascia sedurre da un culto che offra qualcosa che non rispecchi la giustizia della vita. In termini moderni potremmo dire: Dio non apprezza un culto che dissoci rito e vita.
Il rapporto con Dio si dà nella verità. Nel giudicare, Dio osserva la vita nella sua sostanza, imparzialmente (cf Sir 35,15).
Per certi versi si potrebbe dire che nella sua giustizia Dio ha comunque delle preferenze: predilige il povero e l’umile; gli ultimi, coloro che non contano davanti agli uomini (cf Sir 35, 17;21).
Dalla vita alla preghiera
A questa attenzione alla sostanza della vita si rifà l’inizio del Vangelo di oggi che, insieme con la conclusione, è la prospettiva dalla quale leggere e interpretare la parabola narrata. Il testo è la continuazione della catechesi sulla preghiera già iniziata domenica scorsa sulla necessità di pregare sempre e fiduciosamente. La parabola del fariseo e del pubblicano aggiunge che la preghiera, per essere vera, richiede un’opportuna disposizione interiore. I due atteggiamenti, presunzione di giustizia e disprezzo del prossimo (cf Lc 18,9), si accompagnano non accidentalmente. Non vera giustizia, ma presunzione di essa; e chi presume di sé, si erge a giudice degli altri, almeno perché non conosce se stesso. Chiunque conosca bene se stesso sa che ha ben poco da giudicare.
Fariseo e pubblicano: atteggiamenti del corpo
La parabola del fariseo e del pubblicano richiama e sviluppa l’ultimo versetto del vangelo della scorsa settimana (cf Lc 18,8). La fede implica il rapporto con Dio, con se stessi e con gli altri. La preghiera non può che essere continuazione e conferma di questo rapporto, sano o patologico che sia. Fariseo e pubblicano rappresentano plasticamente due atteggiamenti che si esprimono sia con il corpo sia con le parole. L’atteggiamento del corpo del fariseo (cf Lc 18,11) è quello dell’autosufficienza, e la sua preghiera è autoreferenziale. Dio, nel pregare del fariseo, è un accidente. Uomo pio e ben istruito, inizia, certamente, con una benedizione, ma essa è solo l’avvio di un fastidioso monologo che al centro non ha Dio, bensì il pronome «io». Dio è mero spettatore delle prestazioni religiose del fariseo. Il suo atteggiamento esprime un radicale narcisismo, incapace di un io onesto e solidale. Le parole infatti, a partire dalla lode a Dio, scivolano nell’esaltazione di sé nel confronto con gli altri, meno meritori. Il fariseo non è un personaggio: è un tipo. È il tipo dell’esibizionista religioso, non certo dell’uomo di fede.
Il pubblicano, invece, è descritto come spaesato nel contesto. Sta con gli occhi bassi, si batte il petto, si ferma a distanza, consapevole della propria indegnità. Anche il pubblicano è un tipo: chi è degno di stare al cospetto del Santo, se non per benevolenza?
Fariseo e pubblicano: le parole
Le parole dei due protagonisti rivelano il loro cuore. Il fariseo vanta una vita corretta, addirittura supererogatoria rispetto alla legge in fatto di digiuno e decime. Eppure questo inventario di meriti, elencato soprattutto nel confronto con gli altri (cf Lc 18,11), fa del fariseo il perfetto tipo dell’ateo: è talmente narcisista che non ha bisogno di Dio; prega per elogiarsi; per lui la salvezza è ricompensa, non dono.
Il pubblicano, invece, riconosce la propria povertà, la propria indigenza radicale, quella che muove la preghiera che, secondo il già citato Sir 35,21, viene ascoltata dal Signore. Consapevole del proprio peccato prega, diversamente dal fariseo, rivolgendosi a Dio, perché da lui, con l’ammissione del proprio peccato, invoca il perdono, e attende – non pretende – la salvezza (cf Lc 18,14). Del fariseo Gesù non biasima la vita, ma la superbia. Del pubblicano non elogia la vita, ma l’umiltà.