13 LUGLIO 2025
15ª DOMENICA T.O.
FARSI PROSSIMI A IMMAGINE DI DIO
COMMENTO
La parabola del Buon Samaritano è narrata anche da Matteo e Marco. I due evangelisti la collocano negli ultimi giorni di vita di Gesù a Gerusalemme (Mt 22,34-40; Lc 12, 28-34). Luca la narra all’inizio del cammino di Gesù verso Gerusalemme, in testa agli insegnamenti che vuole trasmettere ai discepoli. La notizia del successo che ottiene, fra la gente semplice della Galilea, giunge alle orecchie attente di chi si è impossessato del Tempio di Gerusalemme.
Fra questi signori , un importante ruolo veniva rivestito dai dottori della legge che si erano arrogati l’onore di essere gli unici interpreti della Sacra Scrittura. Quindi uno di loro si reca di persona a controllare se la predicazione di Gesù è conforme ai loro dettati. È un uomo scafato e furbo. Rivolge un interrogativo capzioso: «Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?». L’appellativo “maestro” gronda sarcasmo ed ironia. Il Figlio di Maria, per la burocrazia di allora, non ha alcun titolo che lo autorizza a commentare in pubblico la Parola divina.
Gesù accetta la provocazione e contrattacca. Chiede allo scriba se, per caso, conosce che cosa dice la Legge a riguardo della sua domanda. Se è capace di leggere ed intendere basta andare ai versetti Dt 6,5 e Lv 19,18 per avere la risposta al suo interrogativo.
A questo punto lo scriba reagisce provocando il Maestro a rispondere su un problema scottante e divisivo in quel tempo. Il significato del termine prossimo è al centro di una grande e aspra contesa fra le due più’ importanti scuole rabbiniche che fanno capo a Shammai ed Hillel. Shammai è il rigorista per il quale prossimo si può considerare solo chi appartiene alla religione ebraica. Hillel è meno fondamentalista e considera prossimo anche gli stranieri che risiedono in Israele. La diatriba è furibonda e divisiva. Gesù sgattaiola dalla polemica ricorrendo ad una parabola tranciante e che non lascia il minimo dubbio a riguardo del suo pensiero. Tutti conoscono la pericolosità del sentiero che scende dagli 818 metri di Gerusalemme ai 258 metri sotto il livello del Mediterraneo di Gerico. I briganti ed i trenta chilometri da percorrere sotto il sole cocente del deserto di Giuda rendono l’impresa un azzardo pericoloso per tutti. Se ti succede qualcosa la morte è l’unica prospettiva, a meno che qualcuno, a suo rischio e pericolo , non si fermi in soccorso. Se questo si avvera chi compie quest’azione è “il prossimo”.
Non lo è il sacerdote, che, terminato il suo dovere di svolgere i compiti assegnati nel Tempio , si affretta nel ritornare a casa sua ancora profumato di incenso ed avvolto in una purità rituale immacolata. Lui osserva la Legge che gli impone di tenersi alla larga dagli sconosciuti, dagli ammalati, da coloro che sanguinano perché impuri. Quindi è meglio girare al largo. Le stesse motivazioni spingono il Levita a fare esclusivamente i fatti suoi. Sì dispiace della brutta situazione ma è colpa sua se lo sconosciuto agonizzante è incappato nei ladroni. Succede. Pazienza.
Invece è “prossimo” l’impuro, l’eretico, il disprezzato samaritano che chiude la processione dei viandanti. Lui non si preoccupa di essere impuro. Non gli importa di osservare nevroticamente la legge. Non è un credente avviluppato nella corazza del perbenismo autoreferenziale. Si accontenta di essere un uomo di cuore che per soccorrere non chiede la carta di identità, non gli interessa la fedina penale immacolata. Gli basta di vedere nell’altro un suo simile, figlio dello stesso Padre, un fratello da aiutare.
E per noi chi è il nostro prossimo? È un bel l’interrogativo. In chi ci riconosciamo? Nel sacerdote e nel levita nel loro perbenismo moralistico? O nel samaritano peccatore ma “prossimo”?
Nel momento della prova in chi dei tre vorremmo imbatterci? Don Milani dice che il cristiano è colui che nel quotidiano coniuga il verbo inglese “I care” (me ne importa) e tralascia il più frequentato e praticato “me ne frego”. Tra le due possibilità, quale facciamo nostra?
MEDITAZIONE
La conversione è un’esperienza di mutamento e di sviluppo. Di essa si può parlare in molteplici modi, corrispondenti alle molteplici esperienze di conversione possibili. Essa, infatti, può essere il passaggio dalla non fede alla fede. Oppure dal male al bene. O ancora la conversione dal bene al meglio. Infine, nell’esperienza del credente, la conversione si configura come il passaggio dalla fede considerata come un complesso di dottrine da conoscere alla fede vissuta. Ovvero: il passaggio dal fare teologia all’esistenza teologica. Fa teologia chi s’interroga sulla propria esperienza di fede e su Dio. Vive un’esistenza teologica chi incarna quelle riflessioni nella propria vita.
La domanda del dottore della Legge
Quando il dottore della Legge si rivolge a Gesù è animato da un vero desiderio di vita eterna (cf Lc 10,25). La domanda posta, indipendentemente da eventuali intenzioni impure, è di schietta natura religiosa.
Gesù comincia il suo insegnamento innanzi tutto riorientando il discorso, e lo fa ponendo a sua volta una domanda (cf Lc 10,26). La soluzione è nella Legge stessa. Il dottore della legge, infatti, cita due passi dell’Antico Testamento, connettendoli nel giusto ordine (cf Lc 10,27). È chiaro che conosce la Scrittura, che sa la risposta giusta. Il difetto non sta nella non conoscenza teorica (cf Lc 10,28). Ciò che manca è detto nella seconda parte della replica di Gesù: «fa’ questo e vivrai» (Lc 10,28).
Tutto il brano di vangelo di questa domenica si regge sul verbo «fare» (cf anche Lc 10,37). Tutto il brano è un invito a passare dalla teoria alla prassi che renda la teoria concretezza; dal fare teologia al vivere un’esistenza teologica.
Chi è il mio prossimo
Luca dice che, «volendo giustificarsi» (Lc 10,29), il dottore della Legge replica chiedendo chi sia il suo prossimo. La domanda è originata dal modo della casistica giudaica, per cui si cercavano progressive definizioni e delimitazioni della prossimità. Trovando la risposta a essa si chiariscono i termini che rendono possibile la fedeltà alla Legge. Il pio dottore, però, pone la questione su un piano teorico, di definizioni e deduzioni. E il prossimo non è mai un caso che si adegui o no a una definizione. Il prossimo è sempre e solo un volto.
Il buon Samaritano
La questione riguardo il prossimo offre l’occasione per la narrazione della parabola. In essa sono protagonisti un uomo, anonimo; un sacerdote e un levita; un Samaritano. È proprio lui, quello da cui meno te lo aspetti, che è disponibile a lasciarsi toccare dalla situazione di uno sconosciuto, di un estraneo.
Per il sacerdote e il levita, il culto, svuotato del suo senso di essere espressione della vita, diventa alibi per chiudersi all’amore che quello stesso culto dovrebbe significare. Invece il Samaritano si muove a compassione. È lui che pone azioni di misericordia concrete, generose, disinteressate e libere, perché non vincolate da pregiudizi e precetti. Come Gesù, che si fece prossimo a ogni uomo, giusto o ingiusto, santo o peccatore, amico o nemico.
Il Samaritano è attento non a sé o alle proprie preoccupazioni, bensì allo stato di necessità dell’uomo. È qui il primo ribaltamento della parabola. L’attenzione non va all’inquadramento di chiunque in una determinata categoria, bensì alla sua situazione e ai suoi bisogni. Il che consente di definire il prossimo non in quanto mi è prossimo, ma in quanto io mi ci faccio prossimo. Il prossimo non è definito da una teoria, ma da un appello alla mia misericordia. E questo è il secondo ribaltamento operato dalla parabola.
Dalla teoria alla prassi
La conclusione del discorso sta in due verbi: «vai» e «fai». È un appello a passare dalla teoria alla prassi, un invito alla misericordia che non si può mai far scaturire da una norma, bensì da un cuore disponibile e convertito.
Il fondamento di tutto il discorso altro non è che la misericordia di Dio stesso. Questo fondamento viene rivelato in Cristo. È lui, dice san Paolo, l’«immagine del Dio invisibile» (Col, 1,15). Gesù, Dio incarnato, vero buon Samaritano, rivela cosa significhi per Dio stesso porre attenzione ai bisogni del prossimo. Gesù mostra il significato di una prossimità universale. Gesù mostra l’estensione illimitata della libertà dell’accoglienza di Dio.
