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3. Annunciare la Parola – 2 maggio 2021

2 maggio

5ª DOMENICA DI PASQUA

Io sono la vite, voi i tralci

PER RIFLETTERE E MEDITARE

Nel lungo saluto ai suoi apostoli la sera del Giovedì Santo, Gesù usa con loro l’icona della vite, agganciandosi alle parole dei profeti. Dopo aver presentato domenica scorsa se stesso come pastore, adesso Gesù trova nella vigna un’immagine ancor più forte per esprimere il rapporto profondo e personale che egli vuole avere con gli apostoli e con ciascuno di noi.

Io sono la vite, voi i tralci
«Io sono la vite, il Padre è il vignaiolo, voi siete i tralci», così dice Gesù ad ebrei che avevano grande familiarità con questa pianta utilissima nella loro società.
Non a caso Gesù si rifà alla vigna per parlare del rapporto speciale che vuole avere con ciascuno dei suoi discepoli e con noi. Molte volte nell’Antico Testamento, Jahvè ha usato la vigna come simbolo del suo rapporto con il popolo d’Israele. Soprattutto per indicare l’amore e la cura che egli aveva per loro (Is 27,2-3). Altre volte ne parla per sottolineare la loro infedeltà (Is 5,1-6; Ger 2,21).
L’icona della vigna esprime in modo inequivocabile il legame che il tracio ha con la vite. Staccato dalla vite, il tralcio non può portare frutto e non serve ad altro che a essere bruciato. Lo dice bene il profeta Ezechiele, che afferma anche la scarsa qualità di questo legno: «Figlio dell’uomo, che pregi ha il legno della vite di fronte a tutti gli altri legni della foresta? Si adopera forse quel legno per farne un oggetto? Si può forse ricavarne un piolo per attaccarvi qualcosa? Ecco, lo si getta nel fuoco a bruciare…» (Ez 15,2-5). Invece ogni tralcio, se rimane attaccato alla vite, produce frutto e frutti squisiti.
La vite è una pianta che ha bisogno di molte cure, è delicata: va potata, mondata, non tutti i rami portano frutto. Gesù ha potato i suoi apostoli attraverso la sua passione e morte. Ora si sono purificati. Gesù chiede a loro di rimanere in lui e di portare frutto. Il Padre, l’agricoltore, brucia i tralci che non rimangono attaccati alla vite, perché non servono più a nulla, e «pota» il tralcio che rimane attaccato alla vite «perché porti più frutto». Il riferimento è alla nostra fatica di vivere, al cammino di ascesi a cui i cristiani sono chiamati. È in questo modo che passa la linfa che ci collega alla vite, a Gesù, che per primo è passato per la dura strada della croce.

Gesù vuole che portiamo frutto
Dio Padre come un vignaiolo si prende cura di me perché possa fiorire, portare frutto, raggiungere il mio pieno sviluppo. Così è di ogni cristiano. Entrando sin da bambini nella Chiesa con il battesimo siamo stati inseriti nella vite, che è Gesù, e siamo oggetto delle cure dell’agricoltore, che è il Padre. Se lasciamo passare la linfa e ci lasciamo potare, se «rimaniamo» in Gesù, produciamo frutti di vita nuova.
Il verbo «rimanere» ritorna addirittura una decina di volte in questo capitolo di Giovanni. Rimanere in Gesù vuol dire fargli spazio nella nostra vita, dargli tempo, vivere per lui. Ma il verbo rimanere è sempre accompagnato da un altro verbo: «portare frutto». Chi infatti rimane in Gesù, diventa fecondo. Se sostenuta dalla vita, la sua preghiera viene ascoltata, come dice Gesù: «Chiedete quel che volete e vi sarà fatto». Pur nei nostri limiti, in noi scorre la stessa linfa che lega Gesù alla vite, e il Padre ci guarda con compiacenza.
Il «portare frutto» è inteso soprattutto nei confronti degli altri. Infatti chi rimane in Gesù, si fa suo discepolo e apostolo. In questo modo non fa soltanto di se stesso una persona realizzata e felice, ma diventa un testimone che rende felici gli altri. È così che la vite non rimane sterile, ma porta frutti.

Eucaristia, centro della nostra vita
Tutte e tre le letture di questa domenica presentano dei riferimenti alla vita molto concreti e non è difficile trarne delle applicazioni, a partire dall’importanza che Gesù dovrebbe avere nell’esistenza di ogni cristiano. È lui il nostro salvatore, il nostro punto di riferimento: «Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla».
Tutti desiderano riuscire nella vita, affermarsi, condurre un’esistenza non banale. Molti però hanno l’orizzonte corto, si accontentano di progetti provvisori e fragili, leggeri, effimeri. È chi rimane unito a Gesù, chi si lascia condizionare da lui e si orienta secondo la sua parola, che getta semi di vita eterna e porta frutti che valgono per sempre.
Mezzi privilegiati per rimanere uniti a Gesù sono sicuramente l’Eucaristia, la Parola di Dio e l’incontro con la comunità. Non per niente al momento dell’ingresso ufficiale di un nuovo parroco, nella presentazione alla sua parrocchia, gli vengono consegnate la chiave del tabernacolo e una copia della Bibbia, mentre la comunità lo accoglie festosamente. Sono tre elementi essenziali per la vita di una comunità cristiana.
Ed è proprio la celebrazione eucaristica che rende presenti questi tre elementi: riuniti fraternamente nel suo nome, ci mettiamo in ascolto della sua parola e come tralci uniti alla vite ci prepariamo a entrare in comunione intima con Gesù attraverso l’Eucaristia.

UN FATTO – UNA TESTIMONIANZA

In uno dei suoi incontri con Giovanni Paolo II, mons. Antonio Riboldi racconta che si è sentito guardare da lui con quegli occhi sbarrati che sembravano rivolgersi anche a ogni uomo e donna, e gli disse: «L’uomo ha perso Dio e quindi è finito, come un tralcio staccato dalla vite, in un angolo come un pugile. Bisogna amarlo, fino a riportarlo al centro del ring, perché torni con gioia a lottare, la lotta della Vita per il Cielo».