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3. Annunciare la Parola – 5 settembre 2021

5 settembre

23ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

I gesti di Gesù guariscono e salvano

PER RIFLETTERE E MEDITARE

Gesù compie un secondo miracolo in terra straniera. Questa volta si tratta di un uomo sordomuto, di uno sventurato condannato all’emarginazione. Gesù gli ridà la bellezza di poter comunicare e la gioia di vivere. È un miracolo che richiama le profezie, e che rende presente il regno di Dio. Come ogni miracolo, anche questo è segno della misericordia del messia verso le categorie più sventurate e umili.

La guarigione del sordomuto
Gesù passa per Sidone e gli presentano un sordomuto. Una uomo dalla vita difficile, che sicuramente lo costringeva a elemosinare negli angoli delle strade. Moghilálos, la parola greca con cui l’evangelista definisce la malattia di quest’uomo, è molto rara e nella Bibbia la si trova solo in questo racconto e nel brano di Isaia che viene proposto oggi, a cui Gesù stesso fa riferimento.
Sappiamo che quando Gesù fa un miracolo evita sempre ogni apparenza di magia, sia nei gesti che nelle parole. In questo caso invece non si limita a imporre le mani, come gli propone qualcuno, ma si comporta come un guaritore del suo tempo. Prende il sordomuto in disparte, gli mette le dita nelle orecchie, sputa e con la saliva gli tocca la lingua, alza gli occhi al cielo, emette un gemito, pronuncia una parola strana. Gesti inevitabili, trattandosi di un sordomuto: come avrebbe potuto fargli capire qualcosa di quello che stava facendo senza comportarsi in questo modo? Per altri miracoli furono sufficienti le parole, per questo diventava indispensabile compiere dei gesti che lui potesse capire e forse per sollecitarlo ad aprirsi in qualche modo alla fede.
Gesù accompagna i gesti con la parola effatà (apriti), che Marco riporta nell’originale aramaico, e che dà probabilmente autorevolezza storica all’episodio. La parola rimarrà nella tradizione ecclesiale ed entrerà nel rito del battesimo dei nuovi cristiani.

Il significato messianico
Il miracolo si rifà a Isaia, quando profetizza che con l’arrivo del messia «si apriranno gli occhi dei ciechi e si schiuderanno le orecchie dei sordi; lo zoppo salterà come un cervo, griderà di gioia la lingua del muto». Espressioni che si collegano esplicitamente al Vangelo di oggi e che Gesù userà per affermare la sua messianicità. Agli inviati di Giovanni Battista dirà: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11, 4-5).
Sono innumerevoli le occasioni in cui Gesù restituisce salute e dignità a tanti sventurati: ciechi, paralitici, lebbrosi, epilettici… Al tempo di Gesù queste malattie erano considerate un castigo di Dio, ma la sordità era addirittura una maledizione, perché impediva di ascoltare la parola del Signore che veniva letta nelle sinagoghe.

Le nostre sordità
Oggi c’è ancora chi è sordo o muto, ed è una triste sventura, ma è molto più diffusa la categoria di chi fa il muto e si comporta da sordo per non comunicare, soprattutto per non sentire il grido di chi aspetta una nostra parola per sentirsi vivo.
Viviamo nell’epoca dei cellulari, di internet, di Facebook, ma sentiamo tutta la fatica di sentirci in comunione tra di noi, in famiglia, perfino tra gli amici. Ognuno si chiude nella propria esperienza e ha paura di tessere relazioni che diventino significative e magari durino nel tempo.
In questi giorni comincia il nuovo anno scolastico. È importantissimo che la scuola si ponga l’obiettivo di assicurare a tutti i ragazzi la capacità di ascolto e di parola, senza emarginare nessuno, anzi con il preciso intento di essere più attenti ai ragazzi in difficoltà, che meno hanno ricevuto e meno sono capaci di esprimersi.
Un discorso a parte è poi la solidarietà verso chi è colpito da sordità o dalla incapacità di parlare. Più frequentemente sono i sordi che incontriamo nelle nostre strade. Verso di loro è così facile lasciarsi prendere dalla impazienza e dalla insensibilità. Essi hanno bisogno di attenzione e un pizzico di generosità: con loro si deve parlare a voce alta e chiara, evitando l’impazienza e soprattutto lo scherno.

La lettera di Giacomo
La lettura di Giacomo ci richiama infine all’attenzione di tante situazioni di emarginazione. È così facile trattare bene e mettere in situazione di privilegio chi è ricco e ben dotato, chi ci è simpatico. Nella nostra società questa discriminazione fra chi ha di più e chi è meno fortunato non scandalizza troppo, ma non dovrebbe essere così nella comunità cristiana. La Chiesa primitiva è stata scossa dalla parola di Giacomo e ha fatto largamente posto alle categorie più umili. Oggi nelle nostre comunità sono del tutto scomparse o stanno scomparendo le discriminazioni cui fa riferimento Giacomo. Chiunque prova ripugnanza se a qualche persona illustre viene ancora riservato un posto d’onore. Alcune scelte sono incompatibili con la fraternità espressa dall’Eucaristia.

UN FATTO – UNA TESTIMONIANZA

Un giorno a Torino si presentò alla porta della Casa della Divina Provvidenza l’arcivescovo di Vercelli. Don Giuseppe Cottolengo, avvertito, si fece scusare con l’illustre visitatore, e gli fece dire che non poteva presentarsi a riceverlo immediatamente perché stava giocando un’importante partita alle bocce con un caro amico. Stava giocando con un disabile, un ospite della casa, e disse che si sarebbe facilmente offeso se avesse interrotto il gioco. L’arcivescovo accettò quella lezione di umanità e volle avere l’onore di fare da arbitro e contare i punti nella gara di quei due accaniti giocatori di bocce.