5 OTTOBRE
27ª DOMENICA T.O.
LA FEDE DEL SERVO INUTILE
COMMENTO
La prima lettura di questa domenica è tratta dal breve libro (solo tre capitoli) del profeta Abacuc. Di lui non conosciamo nulla. Sappiamo solo che il suo messaggio ha rivestito una grande importanza sia nella comunità di Qumran, sia nel cristianesimo primitivo. Venne scritto nel VI secolo a.C. durante una fase storica convulsa del popolo ebreo, dominata da violenze e dissidi. Il profeta assiste allibito a quanto succede.
I Caldei scacciano gli Assiri. Si impongono su tutto il Medio Oriente. Con ferocia ed avidità conquistano anche Gerusalemme e ne deportano la popolazione. Il diritto viene calpestato, i forti depredano i deboli e la corruzione dilaga. Il profeta si sente abbandonato da Dio. Dal suo cuore salgono alcuni interrogativi che fotografano bene anche la nostra situazione attuale: «Fino a quando, Signore, implorerò e tu non ascolti, a te innalzerò il grido “Violenza” e tu non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione?» (Ab 1, 2-3).
La risposta di Dio arriva al versetto 2,4. Dio verrà e non tarderà: «Ecco soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede». Ma che cosa si intende per fede?
Anche noi di fronte ad essa ci sentiamo deboli e, come gli apostoli, chiediamo a Gesù di aumentarla e fortificarla. Avere fede non vuol dire essere passivi, bigotti, prigionieri di devozionalismi privi di concretezza e coerenza di vita. Papa Leone rispondendo in inglese ad un giornalista americano gli ha ricordato che il cristiano deve schierarsi per la vita non solo combattendo l’aborto ma soprattutto lottando per l’abolizione della pena di morte, accogliendo i profughi e praticando la giustizia sociale.
La fede deve svegliarci dai nostri torpori esistenziali. Ci vuole in piedi e vigili. Lo dice chiaramente il Vangelo: «Beati quei servi, che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli» (Lc 12, 37).
Dio non chiede di essere servito, ma vuole servire. Il suo messaggio è un invito ad essere liberi e non schiavi della nostra avidità e dei nostri rancori. Il Figlio di Dio è venuto non per imporci dei doveri da padrone, ma, con il suo esempio, a proporci un nuovo modo di essere attraverso la sua testimonianza messa a nostra disposizione.
Non servi inutili del nostro innato egoismo, ma padroni della nostra vita, dei nostri sentimenti, della nostra intelligenza e della nostra libertà radicata nella coerenza della nostra fede vissuta.
Dio è padrone del bene, della giustizia, della misericordia e dell’amore.
Ma si fa servo attraverso la Parola che suo Figlio, vivendo la nostra realtà, ci ha testimoniato e trasmesso, rendendoci “signori” della nostra vita.
MEDITAZIONE
Professare la fede cristiana significa credere ed affermare un certo numero di proposizioni relative al Padre, al Figlio, allo Spirito, alla Chiesa, ai sacramenti, alla vita eterna e alla risurrezione della carne. Tutte cose essenziali, perché se non si concorda almeno con il Credo tanto vale dirsi di un’altra religione. Tutto ciò, però, ancora non basta. Per professare la fede cristiana bisogna innanzi tutto essere cristiani; e per essere cristiani bisogna accogliere il Vangelo e plasmare la propria esistenza su di esso.
Tutti sappiamo, però, che il Vangelo vissuto è un impegno esigente. Qui abbiamo la misura del problema. È evidente la sproporzione fra ideale e debolezza; fra la meta cui ambiamo e le risorse di cui disponiamo. In questa sproporzione si può collocare la constatazione della necessità della fede e, dunque, la richiesta dei discepoli: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17,6).
La risposta di Gesù muove sul filo del paradosso. I discepoli chiedono un incremento della fede; Gesù risponde che non è questione di quantità bensì di qualità. Ciò che è richiesto è una fede autentica.
La fede: la sua crescita, le sue crisi
La fede è l’atteggiamento di fiducia con il quale il discepolo si relaziona con Gesù. Nasce dal riconoscimento dell’impotenza umana e della potenza di Dio e per questo si configura come l’ambito di accoglienza dell’azione di Dio.
La fede, come tutte le dimensioni dell’esistenza umana, è sempre precaria. Non è mai un patrimonio acquisito e stabile. Anch’essa è soggetta a sviluppo o involuzione. Non è contrario alla fede il ricercare, l’interrogare. A essa è contrario solo il lasciarsi travolgere dal dubbio senza prendersene cura, senza dotarsi degli strumenti critici per affrontarlo.
La fede passa sovente per il crogiuolo della prova, dell’inquieto interrogare Dio. Il profeta Abacuc dà parole a questo travaglio. Innalza il suo grido di angoscia nella preghiera (cf Ab 1,2). Sono parole che l’umanità dice di frequente, gridando verso Dio, e spesso contro Dio. È il grido tormentato che nasce dallo scandalo del male che affligge la vita umana e pervade la storia. Spesso al cospetto di tanto male sembra che Dio rimanga indifferente, impassibile, muto. È il trionfo della violenza, del dolore, della sofferenza; del male di vivere, quando il passare dei giorni è più condanna che gioia. Per il credente è una prova difficilissima che si condensa tutta in un’interrogazione: «Perché, Dio?».
La profezia di Abacuc continua. E lì Dio risponde. Ma a ben ponderarla è una risposta che non è semplicemente risolutiva: interpella ancora la fede dell’uomo (cf Ab 2,2-4).
Dio s’impegna con il profeta, stende un documento scritto (cf Ab 2,2-3). L’impegno di Dio afferma che l’accrescersi e l’imperversare del male non è definitivo. A esso Dio stesso porrà un termine, una sconfitta totale e definitiva.
Nel tempo di mezzo che si dà fra la promessa e la sua realizzazione, però, di nuovo è chiamata in causa la fede dell’uomo (cf Ab 2,3-4). La fede davanti alla prova si configura anche come capacità di resistenza, come perseveranza.
Prendersi cura della propria fede
Nel tempo di mezzo c’è una responsabilità sulla propria fede. È quella cui richiama san Paolo nella sua esortazione a Timoteo (cf 2 Tm 1,14). È una fede da coltivare con la preghiera, con la meditazione della Parola, con la riflessione e con la custodia della Tradizione.
A partire dalla fede così intesa, centrale nella propria esistenza perché capace di illuminare ogni altro aspetto, non sminuendolo o violentandolo bensì inserendolo in un contesto operativo e di significato più ampio, la vita intera si trasforma e diventa servizio, testimonianza, collaborazione all’opera di redenzione di Dio (cf 2 Tm 1,8).
Ecco dunque la seconda parte del Vangelo. I servi concludono dicendo «Siamo servi inutili» (Lc 17,10). L’inutilità non consiste nel fatto che il nostro agire sia indifferente al Regno o a Dio, bensì nella constatazione liberante che, in ordine al Regno, posto il nostro servizio i risultati non dipendono da noi. Servi inutili perché, quando la fede anima le nostre azioni, esse sgorgano da un cuore mosso dalla disponibilità, dalla capacità di oblazione, dall’amore e dalla gratuità.
