Pubblicato il

3. Annunciare la Parola – 17 ottobre 2021

17 ottobre
29ª DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO

L’autorità è servizio

PER RIFLETTERE E MEDITARE

Gesù ha rifiutato per sé qualsiasi tipo di potere. Pur consapevole della sua natura divina «umiliò se stesso, facendosi obbediente fino alla morte, e alla morte di croce» (Fil 2,6-11). Scelse per sé come stile di vita il servizio, ed è così che Gesù vede l’autorità nella Chiesa, tra cristiani. Non l’ambizione di chi cerca i primi posti, né la ricerca di affermare se stessi nella comunità, ma il farsi piccoli e servi.

La richiesta di Giacomo e Giovanni
È la terza volta che Gesù dice agli apostoli che a Gerusalemme dovrà subire la condanna a morte. Si direbbe che lo ripeta per preparare sempre meglio quegli uomini dalla fede an­cora debole a quello che sarà per loro un momento difficilissimo e di tragica crisi. Ma come le altre volte, essi non comprendono. Rimangono degli ebrei, e per loro è inimmaginabile un messia sconfitto e umiliato. La loro unica certezza è che Gesù avrebbe dato inizio a quel regno più volte annunciato, per il quale erano stati fatti apostoli. Questo dovevano avere nell’animo Giacomo e Giovanni, i Boanèrghes, i «figli del tuono» (Mc 3,17), che chiedono a Gesù di poter sedere alla sua destra e alla sua sinistra nel futuro regno.
Men­tre Gesù pensa alla sua tragica fine, essi sognano posti di onore e si preparano a occupare posti di prestigio. Ma Gesù li raffredda facendo ancora capire che prima si deve passare attraverso una fedeltà assoluta e la croce. E dice loro realisticamente: «Voi non sapete quello che chiedete», quasi a indicare la di­stanza che ancora li separa. «Siete pronti a bere quel che calice che io berrò?». Ma essi si dicono pronti.

La reazione degli altri apostoli
Giacomo e Giovanni, con la loro ambizione, hanno in qualche modo preso le distanze dagli altri apostoli. E c’è chi ha pensato al primo tentativo di scisma nella Chiesa, il simbolo iniziale di tante altre divisioni. Ma tristemente la reazione degli altri apostoli nasce dalla stessa ambizione. Si indignano verso di loro, ma non perché hanno capito l’assurdità di quanto i due apostoli chiedono, ma perché vedono nella loro richiesta un’iniziativa per scavalcarli e per prenderli in contropiede.
Al tempo di Gesù chiunque volesse entrare alla scuola di un rabbino era disposto a qualsiasi tipo di servizio per farsi accogliere. Lo facevano per diventare un giorno come il loro maestro: un rabbino pieno di privilegi e di un’autorità sociale riconosciuta. Gesù invece è un maestro nuovo e imprevedibile, diverso. Non si fa servire da nessuno. Anzi, è lui che serve. Non chiede che i discepoli gli lavino i piedi, ma è lui che lava a loro i piedi.
Alla fine Gesù riconosce che Giacomo e Giovanni un giorno berranno anche loro l’amaro calice e saranno battezzati dalla stessa sofferenza. Ma poi riprende a catechizzarli, proponendo a loro, senza sconti, l’insegnamento nuovo e sorprendente di come si deve pensare l’autorità nella sua nuova comunità: chi vuole essere grande deve farsi servo (diakonos), dice. E chi vuole essere il primo deve farsi schiavo (doulos). Se i grandi della terra spadroneggiano sugli altri, tra i cristiani non deve essere così.

Noi e il nostro spazio di potere
«Chi ha il potere cerchi non tanto il gusto di imporsi agli altri quanto la gioia di far loro del bene», dice il papa san Gregorio Magno, un monaco chiamato al servizio della massima autorità nella Chiesa.
Quando Marco scrive questo brano, Giacomo ha già dato la vita per Cristo e per la Chiesa, morendo martire a Gerusalemme (At 12,2). Giacomo, ma anche Giovanni, col tempo comprenderanno bene e in senso pieno le parole di Gesù. Forse è per questo che Luca non ricorda l’episodio e Matteo dice che è la madre a chiedere per i suoi figli i due posti nel regno di Gesù (Mt 20,20-24). Ma il testo di Marco appare più realistico e doppiamente credibile.
Purtroppo l’ambizione è la molla del potere. Chi si tro­va investito di autorità e c’è arrivato magari a forza di gomitate, accetta pacificamente i suoi privilegi ed è disposto a difenderli magari con ogni mezzo. E Marco, che presenta la predicazione di Pietro, si propone di far riflettere la Chiesa delle origini sul rischio di costruire una comunità cristiana che accetta questi privilegi, i cerimoniali servili e i gesti di sottomissione, cosa che manderebbe in crisi la fraternità nella Chiesa.
Pur essendo indiscussa, l’autorità nella Chiesa più che altrove dovrebbe es­sere caratterizzata da un senso di misura anche più marcato, essere vissuta evitando distacchi assurdi e una concezione aristocratica della propria funzione.
Ma proprio per rendere il pensiero di Gesù più vicino a noi, prima di puntare il dito sulle autorità civili e religiose che ci governano, dovremmo domandarci ­come viviamo noi la nostra piccola o grande fetta di autorità in famiglia, sul lavoro, nella scuola. Perché l’ambizione a volte si annida proprio là dove non te lo aspetti, magari in situazioni micro, che rivelano tutta la nostra voglia di prevalere, più che la fraternità.

UN FATTO – UNA TESTIMONIANZA

«La tiara era il simbolo dell’autorità e della giurisdizione universale del vescovo di Roma. Resta incerta la sua origine, ma nel secolo XIII era costituita da una sola corona, nel secolo seguente da due e, pochi decenni dopo, da tre corone sovrapposte, simboli dei tre regni su cui il papa estendeva il suo potere… Eletto papa, Paolo VI compì un gesto storico: se la pose sul capo e subito se la tolse, questa volta per sempre. Il triregno era un simbolo troppo equivoco, troppo compromesso, incompatibile con l’unico diadema glorioso che aveva ornato il capo del Maestro, la corona di spine» (Fernando Armellini).