27 LUGLIO
17ª DOMENICA T.O.
PREGARE A IMITAZIONE DI CRISTO
COMMENTO
Il Mahatma Gandhi era solito dire che se i cristiani avessero vissuto e testimoniato, nella loro condotta, lo spirito della preghiera del Padre nostro si sarebbe fatto cristiano.
Questa preghiera ci è giunta in tre versioni: quella di Matteo; quella di Luca e quella della Didachè primo catechismo usato nelle prime comunità cristiane.
I biblisti ritengono la versione lucana la più vicina alla preghiera autentica di Gesù il Messia, quando si raccoglieva in preghiera lo faceva all’aperto ed in solitudine. Era così concentrato da attirare l’attenzione e l’ammirazione dei discepoli che non erano soliti ad accompagnarlo in quei momenti di profonda concentrazione.
Uno di loro lo invita ad insegnargli a pregare allo stesso modo. È importante sottolineare il fatto che Gesù non pregava nelle sinagoghe o nel Tempio di Gerusalemme. Frequentava questi ambienti non per parlare con il Padre, ma per insegnare e predicare il Vangelo, pietra d’angolo per la costruzione in terra del Regno dei Cieli.
La sua relazione con Dio avveniva nel silenzio, nella solitudine non nei luoghi di culto di allora.
Nel culto Dio veniva invocato come l’ Onnipotente, l’Eccelso….
Era un Dio lontano. Per lui invece è un Padre vigile e premuroso che è vicino, che perdona e che ama tutti senza distinzione.
Nella mentalità di allora il padre era colui che trasmetteva la vita e si curava dei figli. Il suo nome doveva essere santificato, cioè fatto conoscere a tutti. La sua volontà era il faro-guida nella vita. Per indicare la solerzia che il Padre celeste ha verso tutti, Luca usa un termine che non ha riscontro nella lingua greca. Non esiste, quindi è intraducibile. L’interprete per eccellenza della scrittura in Matteo interpreta questo termine fantasma come “pane che dà la vita” ed in Luca “come pane quotidiano”. Gli esperti dicono che la prima interpretazione è la più aderente al pensiero di Gesù. In un altro brano evangelico il Maestro, infatti, ricorda che il Padre che alimenta gli uccelli del cielo non si dimentica certo dei suoi figli. Quindi questo pane non solo alimenta ma dà senso all’esistenza. ( Il termine in questione è epiousios).
Nel Padre nostro ci viene pure ricordato che l’immensa misericordia di Dio è condizionata dalla nostra misericordia. Quanto più la viviamo nei confronti del prossimo tanto più sperimentiamo sulla nostra pelle il perdono divino. La verifica di quello che crediamo trova la sua validità nel momento di passare dall’intenzione ai fatti concreti.
La condotta di tutti i giorni dimostra la serietà del nostro comportamento. Memore di questo il Padre, anche in questi momenti difficili e cruciali, non ci lascia soli e ci dà la forza di superare qualsiasi seduzione maligna.
Il nostro Padre Nostro è per noi la sintesi del nostro dirci cristiani? Alla fine del brano evangelico odierno Gesù ci ricorda che pregare non vuol dire limitarsi a fare dei gargarismi spirituali , ma richiede costanza nel chiedere fino ad essere invadenti della privacy divina.
Nell’ottica evangelica la determinazione nel chiedere porta sempre buoni risultati, se la richiesta è corretta e sensata.
MEDITAZIONE
Come le tessere di un mosaico, disposte pazientemente una a una, tutte insieme formano la figura che l’artista vuole rappresentare, così in queste ultime quattro domeniche, passo dopo passo, Luca illustra i temi con i quali delinea la figura del discepolo. Il discepolo si mette alla sequela di Gesù secondo le esigenze da lui enunciate, opera la misericordia, ascolta la Parola, prega.
Gesù in preghiera: la relazione con il Padre
Luca presenta spesso Gesù in preghiera. La considerazione dei passi relativi la preghiera di Gesù nel vangelo di Luca porta a riconoscere nel suo pregare l’espressione e la visibilità della sua relazione con il Padre.
Perciò i discepoli, vedendo Gesù in preghiera, si rivolgono al maestro chiedendogli: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). È la stessa preghiera di Gesù l’occasione e il contesto della domanda dei discepoli e dell’insegnamento del maestro.
La relazione con il Padre è il punto decisivo del discorso, non le parole con cui pregare che di tale relazione sono solo espressione. Altrimenti si ridurrebbe l’esperienza della preghiera a questione di formule e di tecniche.
La preghiera del cristiano ha nella relazione di Cristo con il Padre il suo modello e il suo ambiente. Ogni volta che un cristiano prega entra nella stessa relazione di Cristo con il Padre. Solo così il suo pregare è vera preghiera.
Il cristiano prega se e in quanto prega «in Cristo, per Cristo e con Cristo», per dirla con la formula liturgica. Tutto ciò che non si colloca in questo ambito è vaniloquio, ostentazione di sé, esercizio di narcisismo spirituale, ricerca di gratificazione estetica o emotiva, anche quando si ammanta di formule pie.
Pregare da figli nel Figlio
La preghiera cristiana è vera se è inserita in quella di Cristo perché, come insegna san Paolo nella seconda lettura, tutta la vita del cristiano per mezzo del battesimo è inserita in quella di Cristo (cf Col 2,12). In virtù della nuova identità donata dal battesimo anche la preghiera, come il resto dell’esistenza cristiana, viene assunta nella relazione che esiste fra il Padre e il Figlio. Non a caso, quando Gesù insegna a pregare, insegna a rivolgersi a Dio chiamandolo «Padre». È riduttivo interpretare quest’appellativo secondo la linea psicologico-emotiva, cioè come «paparino», «papà» o simili, pur essendo possibili e corrette traduzioni. Il punto qualificante non è nell’analogia con l’esperienza umana, che peraltro, sappiamo bene, può essere, come tutte le esperienze umane, tutt’altro che positiva. Ciò che si dice con la parola «Padre» è che, «in Cristo, con Cristo e per Cristo», al discepolo è data la stessa opportunità di relazione d’intimità e fiducia che ebbe Gesù con il Padre.
La preghiera di Abramo
L’episodio di Abramo è illuminante. Il patriarca può mercanteggiare con Dio perché con lui ha un rapporto interpersonale d’intimità, tanto che Dio stesso gli rivela i propri propositi. Abramo può condurre un dialogo ardito con Dio perché ha confidenza con lui; può sfidare Dio in merito alla sua giustizia (Gn 18,23) perché ha con lui una relazione confidente, fino a giungere a interrogare Dio su uno dei problemi maggiori della nostra esistenza di credenti: la sua giustizia.
Perseveranza e umiltà
Il discorso di Gesù sulla preghiera termina esortando alla preghiera perseverante, conseguenza della fiducia che la richiesta venga ascoltata, e promettendo il sovvenire di Dio alla preghiera del credente con l’elargizione del dono dello Spirito Santo. È lo Spirito il protagonista della nuova relazione fra il credente e Dio.
Precondizione di questo perseverante chiedere ed essenziale elargire è la capacità dell’uomo di riconoscere il proprio bisogno (cf Lc 11,9). Il chiedere, nella preghiera, è un atto di umiltà, è il riconoscimento della propria fragilità creaturale.
A quest’atteggiamento si può collegare l’ultima fra le richieste del Padre Nostro: «non abbandonarci alla tentazione» (Lc 11,4). È l’invocazione del credente che sa quanto sia faticosa la fedeltà al Vangelo e la perseveranza nella prova. È soprattutto in queste occasioni che più fortemente bisogna invocare «non abbandonarci alla tentazione», animati dalla fiducia che la nostra richiesta, umile ammissione di debolezza, sarà ascoltata.
