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3. Annunciare la Parola – 5 t.o. C, 10 feb ’19

PER COMPRENDERE LA PAROLA

La liturgia mette in parallelo due racconti di vocazione, tra i quali troviamo parecchi punti di somiglianza: Dio si manifesta, il chiamato si dichiara peccatore, egli è mandato in missione.

PRIMA LETTURA
1. Nello scenario grandioso del tempio (certamente i serafini facevano parte delle decorazioni che ornavano il tempio sino alla riforma di Ezechia), Isaia riceve la rivelazione della grandezza di Dio. Si tratta del “Dio dell’universo”, del “Signore degli eserciti” che domina le potenze cosmiche, e non solo del Dio del piccolo mondo nel quale egli vive.
2. La vicinanza di Dio gli fa prendere coscienza della sua indegnità, del suo peccato. Dio è santo.
3. Di fronte all’appello di Dio, Isaia si offre per la missione. Peccatore purificato, accetta di denunciare il peccato del popolo di cui fa parte. In confronto agli altri racconti di vocazione, è degna di nota questa spontaneità.

SALMO
È una lode di Dio, cantata nel tempio, “davanti agli angeli”, il che corrisponde alla visione di Isaia.
Inoltre ha una portata universale: “Tutti i re della terra”, ed è nello stesso tempo molto personale: ricorda al Signore un suo particolare gesto di salvezza: “Mi hai risposto”.
Messe sulle labbra purificate del profeta, queste parole diventano più concrete.

SECONDA LETTURA
È una delle prime formulazioni del messaggio essenziale della fede in Cristo morto e risorto. È ciò che vien detto il “kerygma” e che Paolo riprende certamente da una specie di Credo usato nelle assemblee liturgiche, nel quale va notato il ripetuto riferimento alle Scritture.
Segue l’enumerazione dei testimoni della risurrezione, fra i quali Paolo mette anche se stesso.
Sul kerygma, invece, Paolo riferisce soltanto ciò che ha ricevuto.
Infine, se vogliamo accostare questa lettura alle altre due, possiamo notare che Paolo, coinvolto da questa rivelazione e dalla missione di trasmetterla, prende coscienza della propria indegnità. Unicamente per la grazia di Dio può “faticare”.

VANGELO
È un racconto che leggiamo soltanto in Luca. Giovanni racconta una pesca miracolosa nel contesto della Risurrezione (3a domenica di Pasqua). Marco e Matteo raccontano la vocazione degli apostoli, ma senza la pesca miracolosa.
Luca e Giovanni centrano il loro racconto sulla vocazione di Pietro e sottolineano che Gesù ha affidato la missione a un uomo peccatore (in Giovanni, allusione al rinnegamento).
Per di più, quest’uomo fallisce proprio nel mestiere nel quale dovrebbe essere competente. Interviene Gesù, e con lui (“sulla tua parola”) la pesca supera ogni aspettativa. La missione della Chiesa riceverà efficacia unicamente dalla potenza di Cristo.
Di fronte a questa manifestazione di potenza, Pietro è preso da stupore e chiama Gesù col titolo di “Signore”.
Paradossalmente, la pesca miracolosa spinge i discepoli ad abbandonare la pesca per seguire colui che parla loro di “pescare uomini”. “Lasciare tutto”: l’espressione sottolinea l’esigenza della vocazione e si ritroverà per Levi (5,28) e per il giovane ricco (18,22).


PER ANNUNCIARE LA PAROLA (piste di omelia)

La chiamata
Non siamo noi a scegliere Dio, è lui che ci interpella: il più delle volte, in un momento imprevedibile e in circostanze inaspettate. Isaia (1ª lettura) credeva alla presenza di Dio nel tempio, ma non si aspettava certo di “vederlo”. Paolo (cf At 26,12-18) era sicuro di difendere Dio perseguitando la nuova setta dei discepoli d’un certo Gesù, ed è proprio questo Gesù che lo getta a terra sulla strada di Damasco. Pietro e i suoi amici (Vangelo) si ritenevano pescatori esperti: questo “Maestro” provoca una pesca inaspettata, miracolosa, che li lascia stupefatti.
Ognuno ha un incontro tutto speciale con Dio, il quale si fa conoscere nel profondo, cosicché il chiamato entra in un’intimità tutta nuova col Signore.
Isaia viene a conoscere dal cielo (l’inno dei serafini) che Dio non è semplicemente il più grande e il più forte di tutti gli dèi, bensì il “Totalmente Altro”, il “tre volte Santo”. Egli ci descrive la scossa della visione con le immagini e le figurazioni religiose del suo tempo (un trono, un coro di angeli, un manto regale, un luogo profumato d’incensi e risonante di grida d’acclamazione), proprio nel tentativo di raccontarci l’incontro della sua vita, il contatto inesprimibile con una Presenza immensa e sovrana.
Paolo rivendica il suo titolo d’apostolo basandosi sulla nascita improvvisa della sua fede nel Cristo: “Apparve anche a me come a un aborto”.
Pietro aveva accettato con scetticismo di ritornare a pescare, ed ecco che lo sgomento lo prende, non solo “perché le reti si rompevano” per la quantità di pesci, ma anche perché sente la potenza strana di quell’uomo: non lo chiama più “Maestro”, bensì “Signore”.
Talvolta le circostanze della vita ci portano alla scoperta d’una verità importante, a una scelta che ci impegna, a una riflessione che ci costringe a giudicarci, anche se la decisione che potrebbe derivarne supera le nostre forze o le nostre possibilità: forse è un incontro di Dio.
Isaia diventerà profeta e trasmetterà al popolo i rimproveri di Dio, le sue meravigliose promesse messianiche. Paolo diffonderà tra i popoli pagani (qui, fra i Corinzi) il Vangelo di Cristo che fino allora aveva rifiutato: faticherà “più di tutti gli apostoli” e meriterà di essere chiamato “l’Apostolo”. Pietro lascerà le barche della sua pesca sul lago di Genesaret per andare a “prendere uomini”, e ben presto Gesù gli affiderà la barca della sua Chiesa nascente.
L’incontro con Dio non ci lascia mai come prima.

I messaggeri
L’incontro improvviso col Signore illumina di colpo il fondo dei nostri cuori. Chi non si sentirebbe senz’altro piccolo e povero se incontrasse Dio? Isaia, la cui fede era profonda, si crede improvvisamente perduto quando il Tempio risuona delle grida degli angeli attorno a Dio: si vede come “un uomo dalle labbra impure”. Paolo non tralascia occasione per ripetere ai fratelli di esser stato all’inizio un persecutore e di essere quindi indegno del titolo di apostolo. Pietro si rende conto di essere un peccatore e di non meritare i vantaggi di un miracolo: “Signore, allontanati da me”.
Queste confessioni d’umiltà sono già un segno di fede verso il Signore; l’incontro si fa adorazione e offerta di sé. Isaia osa addirittura proporsi come messaggero: “Eccomi, manda me!”. Paolo attribuisce a Cristo i meriti del suo zelo apostolico: “Per grazia di Dio sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana”. Pietro si getta alle ginocchia di Gesù, “lascia tutto per seguire Gesù”.
Per noi cristiani, il primo passo è riconoscere la nostra povertà. Esso precede e accompagna ogni missione apostolica, ogni testimonianza autentica.

Il messaggio
Quando si è scelti come messaggeri, non si viene chiamati a una funzione anonima, né si tratta di passare poi il tempo a rivivere l’istante privilegiato del primo incontro. A coloro che chiama e arricchisce dei suoi doni, il Signore affida un messaggio da trasmettere, una parola divina da diffondere con la predicazione e la testimonianza. Dio vuole che la fede in lui nasca per mezzo d’una Parola trasmessa da apostolo ad apostolo.
Scrivendo il racconto della sua vocazione, una delle pagine più grandiose dell’Antico Testamento, Isaia spinge il popolo d’Israele a riconoscere nel Dio che ha così spesso guidato il corso della sua storia un essere onnipotente, un Re, che è anzitutto il Totalmente Altro, il Santo; logicamente quindi lo invita a ringraziarlo in primo luogo per la sua immensa gloria. Anche noi, oggi, ripetiamo il canto solenne dei Serafini durante il banchetto dell’Eucaristia, però sappiamo che Dio non ci si presenta più “su un trono alto ed elevato”, ma su una tavola dove si dona in comunione.
Paolo e tutti gli apostoli di Gesù trasmettono il Vangelo della Nuova Alleanza. In realtà, al centro del loro messaggio, nel cuore della loro predicazione, all’inizio della fede cristiana, c’è una sola affermazione: “Cristo morì per i nostri peccati, fu sepolto ed è risuscitato”. Pietro e i Dodici “l’hanno visto” vivo (2ª lettura): anche Paolo, il persecutore diventato apostolo, l’ha visto vivo e l’ha sentito parlargli. Da allora credere in Cristo non significa tanto imparare una dottrina o abbracciare una religione, quanto aprirsi alla parola del testimone, riferirsi alla fede della comunità primitiva e rimanere fedeli all’avvenimento centrale della nostra storia: il Figlio di Dio morto per noi e vincitore della morte con la sua risurrezione. La fede cristiana, nel suo significato più alto, è fede “apostolica”.

(tratto da: M. Gobbin, Omelie per un anno – vol. 2, anno C, tempo ordinario – Elledici 2003)