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3. Annunciare la Parola – 5 e 6 gennaio 2020

II DOPO NATALE – 5 GENNAIO

PER COMPRENDERE LA PAROLA

PRIMA LETTURA
La Sapienza divina presenta se stessa e la propria missione: creata prima di tutti i tempi, è mandata a stabilirsi in mezzo al popolo di Dio, dove attua e ispira il vero culto all’Altissimo.
• Il capitolo del Siracide da cui è tratta la lettura di oggi, segna il punto culmine del libro. In esso è presentata la Sapienza divina personificata, che parla della propria missione.
• La Sapienza prende la parola «in mezzo al suo popolo» (v. 1), cioè il popolo di Dio, Israele;
– richiamandosi alla propria origine, sottolinea il rapporto di particolare intimità che la unisce a Iahvè e che denota la sua natura divina (v. 9);
– infine manifesta le caratteristiche della sua missione: per esplicito mandato divino stabilisce la sua tenda in Sion, per rendere culto all’Altissimo (v. 10); e in Gerusalemme esercita il suo potere (v. 11) come educatrice e santificatrice del popolo eletto, porzione del Signore (v. 12), per indirizzare gli uomini a Dio e al suo servizio (cf Sir 4,12-15).
In questo come in altri testi dell’Antico Testamento, la Sapienza divina personificata non è ancora la persona del Logos divino; tuttavia già se ne intravede la figura. In Gesù Cristo si attuerà pienamente la presenza della Sapienza di Dio in mezzo agli uomini.
L’identificazione Cristo-Sapienza di Dio risulta ancora più convincente se si confrontano il testo del Siracide e il Vangelo giovanneo che fanno parte della liturgia odierna:

Prima dei secoli, fin dal principio, egli mi creò (Sir 24,9).
In principio era il Verbo (Gv. 1,1a).
Ho officiato nella tenda santa davanti a lui (v. 10)
e il Verbo era presso Dio (v. 1b).
Il mio creatore mi fece piantare la tenda e mi disse: Fissa la tenda in Giacobbe e prendi in eredità Israele (v. 8bc).
(Il Verbo) venne fra la sua gente… si fece carne e venne ad abitare (= piantò la sua tenda) in mezzo a noi (vv. 11a.14a).
Ho posto le radici in mezzo a un popolo glorioso, nella porzione del Signore, sua eredità (v. 12).
A quanti però l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio (v. 12).

• È Giovanni a darci il termine di congiunzione, che permette di identificare la Sapienza (Logos) con la seconda persona divina: «Il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio. / Egli era in principio presso Dio» (Gv 1,1-2).

SALMO
Il salmo si apre con un invito rivolto a Gerusalemme perché lodi il Signore. Motivi di questa lode sono:
– le benedizioni elargite ai figli della città santa, assicurando loro la pace e nutrendoli «con fior di frumento» (vv. 13-14);
– l’invio della sua parola (v. 15) che non solo regola i fenomeni naturali a beneficio dell’uomo (vv. 16-17), ma soprattutto rivela all’uomo i sapienti disegni di Dio (vv. 19-20).
Anche noi, figli della nuova Gerusalemme per aver accolto con fede l’annuncio del Vangelo, ringraziamo Dio per il dono della sua parola e della sua sapienza in Gesù Cristo: in lui si è realizzata l’universalità della salvezza, voluta dal Padre per tutti gli uomini.

SECONDA LETTURA
S. Paolo riassume tutta l’opera di salvezza compiuta dal Padre: per mezzo di Gesù Cristo ha predestinato tutti gli uomini a diventare suoi figli adottivi, per il trionfo della sua gloria.
• Egli riprende il tema del piano divino di salvezza e dell’inserimento dei pagani nell’unico corpo della Chiesa, di cui Cristo è il capo. Questo tema centrale lo troviamo già sintetizzato nella dossologia iniziale della quale i vv. 3-6 rientrano nella lettura odierna.
In essi, sono messi in particolare rilievo due elementi:
– per un puro atto di amore e di benevolenza Dio ci ha prescelti e predestinati ad essere suoi figli adottivi in Gesù Cristo (v. 5); cioè per opera della sua potenza divina di salvezza e in forza della nostra unione a lui, capo di tutta la Chiesa;
– la finalità ultima dell’opera di Dio, realizzata per mezzo di Gesù Cristo nella Chiesa, è la stessa gloria di Dio (v. 6).
Appunto la gloria del Padre, già realizzata per la mediazione di Cristo, imprime un nuovo significato a tutta la vita dei cristiani, la quale viene trasportata in un’altra sfera («nei cieli»), quella delle realtà soprannaturali (v. 3). In forza di quest’ordine la Chiesa sulla terra partecipa già, in certo senso e quasi per anticipazione, alla vita della Chiesa celeste.
• Nei vv. 15-18, l’azione di grazie dell’apostolo ha come oggetto una descrizione di quello che dev’essere la vita cristiana innalzata «nei cieli»:
– è una vita caratterizzata dalla fede vissuta in carità (v. 15); la fede riconosce che tutto è dono di Dio e deve ritornare a lui; sia direttamente a lode della sua gloria (v. 14); sia attraverso i fratelli riconosciuti come santi, cioè cristiani, chiamati anch’essi – in Gesù Cristo – ad essere figli adottivi del medesimo Padre e oggetto del suo amore;
– è una vita di sapienza e conoscenza divina, resa possibile grazie all’azione interiore e illuminatrice dello Spirito (vv. 17-18); questa illuminazione del cuore permette ai credenti di riconoscere, in regime di fede e di speranza, la grandezza straordinaria dell’opera che Dio già ora realizza e che essi contemplano apertamente nella gloria futura.

VANGELO
Aprendo i vangeli, constatiamo che ogni evangelista inizia il proprio racconto con una «introduzione»: in essa ci vengono indicati il metodo e l’intenzione del narratore. Giovanni si distacca da questa prospettiva. Con uno stupendo inno cristologico, ci introduce alla storia di Gesù e – contemporaneamente – ne anticipa il senso profondo. La prospettiva del testo può essere così espressa: il Prologo non dice tutto ma apre su tutto. In esso noi troviamo la narrazione evangelica; tuttavia, solo la lettura dell’intera narrazione ci permetterà di comprendere la profondità e la portata di queste anticipazioni.
L’evangelista, alla luce dell’esperienza pasquale e delle riflessioni delle prime comunità cristiane, rilegge tutta la storia della salvezza alla luce di Gesù.

Per leggere il testo
La struttura del testo appare complessa. Possiamo suddividerlo in tre quadri. In essi l’evangelista evidenzia: ciò che Gesù è da sempre (vv. 1-5); l’esperienza di quanti hanno incontrato Gesù (vv. 6-15); l’esperienza della comunità dei credenti (vv. 16-18).
Giovanni, nel primo quadro prende come una «rincorsa»: ci rinvia alle origini, all’inizio di cui parlano le prime pagine di Genesi. Dio, con la sua Parola, crea il mondo. Sceglie un popolo con il quale fare alleanza a vantaggio di tutta l’umanità.
La Parola esiste da sempre, ma non per se stessa: Essa è rivolta verso Dio e verso gli uomini, di cui è la vita e la luce. Essa è Dio.
«Tutto fu fatto mediante essa»: l’espressione è vaga, ma apre a più prospettive. La Parola è attiva nel cuore degli uomini quando cercano di vivere in verità e di incontrare Dio. Essa, cioè, gioca un ruolo fondamentale nella creazione e nella storia della salvezza. Ma questa presentazione è, fin dall’inizio, realista: tra la luce e le tenebre c’è conflitto. L’ottica di fondo, però, è ottimista poiché è avanzata la certezza che le tenebre non possono racchiudere la luce.

La testimonianza
Per continuare la presentazione della Parola, l’evangelista si richiama ora all’esperienza di quanti hanno vissuto con Gesù, la Parola fatta carne. Tutto il secondo quadro (vv. 6-15) è costruito su contrapposizioni:
• La luce vera e il Battista che non è che un testimone di questa luce. Più volte l’evangelista richiama la differenza tra Gesù e il Battista (1,19-28; 1,29-34; 3,22-30). Quando il Vangelo di Giovanni viene scritto non tutti i discepoli del Battista sono diventati cristiani. La corrente dei discepoli del Battista continua a fare «concorrenza» alle comunità cristiane. Ecco, allora, che l’evangelista, pur parlando del ruolo essenziale del Battista, lo definisce in dipendenza dal ruolo di Gesù.
• Quanti accolgono la Parola e credono e quanti non la riconoscono e rifiutano di accoglierla. Tutto il Vangelo di Giovanni può essere letto come un grande processo: lentamente i diversi personaggi prendono posizione a favore o contro Gesù. Ma niente è deciso in anticipo. Anche per quanti iniziano con l’accoglierlo. Certo, a questi è dato di diventare figli di Dio; tuttavia, questo dono è da mettere in pratica. Giovanni è attento al cammino della fede: per questo non perde occasione per dire che è necessario assimilare ciò che ci viene dato come dono, che occorre diventare ciò a cui siamo chiamati.
• Quanti sono nati dagli uomini e Colui che è nato da Dio. Se tutti sono chiamati a diventare figli di Dio, uno solo è Figlio Unico. E, proprio per questo, il Figlio può rendere partecipi della sua condizione tutti gli altri. Gesù non fa che dire e donare ciò che egli è e vive.
Queste opposizioni contribuiscono a mettere maggiormente in risalto un avvenimento inatteso e sorprendente: Dio, l’invisibile, Colui che è totalmente altro da noi, «si è fatto carne». Egli diviene una realtà visibile, storica, tangibile, fragile e debole a tal punto che non può imporsi a quanti lo rifiutano; non solo: egli stesso si espone al rischio della smentita e della morte. Ebbene, questo Dio «pianta la sua tenda» tra gli uomini. Questo verbo («piantare la tenda», spesso tradotto con «dimorò tra noi») richiama la presenza di Dio in mezzo al suo popolo durante il cammino nel deserto e, poi, nel Tempio. Un Dio che «si fa carne» e si incammina sulle strade degli uomini è un Dio che crea sconcerto.

La vita della comunità
Per terminare la presentazione della Parola, Giovanni parte ora dall’esperienza della comunità dei credenti e di tutto ciò che produce l’accoglienza della Parola. Siamo così al terzo quadro (vv. 16-18). Giovanni oppone Gesù a Mosè. La Legge data a Mosè era una luce formidabile sulla strada degli uomini. Ma con Gesù viene ora donata «la grazia e la verità». L’espressione «verità» rimanda, nella Bibbia, non solo a ciò che è vero; richiama, innanzitutto, ciò che è solido, ciò su cui si può fare affidamento. Ecco perché «essere nella verità» significa collocarsi in un legame solido con Dio e ad esso affidarsi. Da una parte abbiamo la responsabilità dell’uomo; dall’altra, Dio che è all’origine di questo dono.
• «Dio nessuno l’ha mai visto». È vero. Ma la realtà sorprendente e sconcertante sta proprio nel fatto che in Gesù, il Crocifisso, Dio si rivela pienamente e definitivamente. Per approfondire questa prospettiva vale la pena di leggere la conclusione della prima parte del Vangelo di Giovanni (12,44-50) e della seconda (20,30-31): vi ritroviamo gli stessi accenti. Si potrebbe anche leggere l’inizio della prima lettera di Giovanni (1 Gv 1,2-5).


PER ANNUNCIARE LA PAROLA (piste di omelia)

Dopo quanto è stato detto sul Vangelo – perché vale la spesa fermarsi ancora su di esso: è un testo troppo importante e di difficile spiegazione sul quale non si può passare sopra, i fedeli hanno diritto di essere aiutati a interpretarlo e a capirlo per il loro bene – si possono evidenziare alcune sottolineature e cogliere delle provocazioni concrete per la vita.

Alcune sottolineature
Il Prologo afferma che la Parola (che storicamente assumerà il volto reale di un uomo concreto, Gesù, cf v. 17) esiste da sempre. Non solo ci dice che esiste da sempre; precisa come da sempre esisteva: «rivolta a Dio». La Parola, cioè, nella sua struttura profonda è ascolto del Padre, è obbedienza, fedeltà. Così nell’incarnazione essa manifesterà proprio questa costante struttura di filiale obbedienza: essa sarà la trasparenza del Padre.
Il centro teologico del Prologo è dato dall’affermazione: «E la Parola si è fatta carne» (v. 14). I giudei facevano fatica a comprendere che la rivelazione ultima e definitiva di Dio fosse avvenuta nella carne di Gesù. Così anche la comunità di origine ellenica aveva difficoltà ad accettare che la carne potesse essere luogo di rivelazione della divinità.
L’evangelista risponde a queste difficoltà sottolineando che Gesù si è fatto «carne» (in greco: sarx): parola che indica non solo la natura umana, ma l’uomo come realtà debole, soggetta al divenire. Una prospettiva teologica non facile da accogliere. Eppure essa diventa criterio discriminante per comprendere chi è da Dio: «Ogni spirito che confessa che Gesù Cristo venuto nella carne è da Dio, ma ogni spirito che non confessa Gesù non è da Dio» (1 Gv 4,2). Non basta allora dire che Gesù è il Messia; occorre professare, con tutte le implicanze e le conseguenze, che è un messia venuto nella «carne», che si è fatto «carne».
Il Prologo va oltre. Non basta affermare che Gesù si è fatto carne. Occorre professare che nella sua storia e nella sua persona si è rivelata la «gloria di Dio». Gesù è la rivelazione di Dio; ma una rivelazione che, essendo avvenuta nella carne, chiede di essere compresa, accolta: è una rivelazione che non appare secondo la logica dell’evidenza mondana.
Ma che significa che in Gesù si è manifestata la gloria di Dio? Il termine gloria rimanda, nel contesto biblico, alla presenza di Dio in mezzo al suo popolo: presenza potente e salvifica. Giovanni ci dice che tutta la storia di Gesù è la presenza dell’azione salvifica di Dio: tutta, e non solo qualche momento particolare. Ci sarà certamente un momento particolare nel quale questa gloria si manifesterà nella pienezza: la crocifissione! L’evangelista parlerà appunto della crocifissione in termini di glorificazione. Gesù che muore sulla croce è il «luogo teologico» in cui comprendere il volto profondo del Dio cristiano.
La conclusione del nostro testo afferma che solo il Figlio può rivelarci il Padre. Tutte le ricerche che l’uomo fa debbono necessariamente incontrarsi con la proposta di Gesù. Allora la ricerca dell’uomo deve cedere il passo all’accoglienza del dono della rivelazione che viene da Gesù. Così la ricerca umana è chiamata a trasformarsi in contemplazione.

Alcune provocazioni
Tra le tante sottolineature, ci soffermiamo su queste, che illuminano il centro teologico del Prologo di Giovanni («e la Parola si è fatta carne») nella convinzione di essere di fronte ad un’affermazione-chiave della riflessione di Giovanni (cf 1 Gv 4,1-3).
Innanzitutto, per tanti di noi la maggior difficoltà di fronte all’incarnazione di Gesù deriva dalla nostra pretesa di definire l’uomo e Dio a prescindere, appunto, dall’incarnazione, di modo che l’incarnazione viene ad essere quasi un «di più». Ora, in Gesù Cristo, l’uomo ci appare sotto la giusta prospettiva: slancio verso l’altro, apertura a Dio. Allo stesso tempo, è Dio stesso che appare nella giusta prospettiva: una prospettiva che purifica e converte tutte le nostre incerte e provvisorie filosofie.
Poi, troppo spesso abbiamo usato, e usiamo, formule concessorie: «Gesù è uomo; sì, ma non dimentichiamo che è anche Dio»; oppure: «Gesù è Dio; ma è anche uomo», come se Gesù fosse uomo benché Dio o Dio benché uomo: come se, prima di lui e fuori di lui, noi sapessimo sufficientemente sia chi è Dio sia chi è l’uomo per immaginare l’uomo-Dio in una specie di equilibrio o di giusto dosaggio. Una prospettiva, questa, generatrice, spesso, di parziali visioni tanto del cristianesimo quanto della sua morale e della sua specificità: quella, appunto, di essere storia e non ideologia.
Ma la lieta notizia che ci viene dal Prologo è questa: un uomo, l’uomo Gesù di Nazaret, ha potuto essere pienamente uomo perché perfettamente Dio. L’accoglienza di questa lieta notizia implica una duplice conversione: cambiare tanto il modo di comprendere il senso dell’esistenza dell’uomo quanto quello di comprendere la divinità di Dio.
Infine, in Gesù, l’uomo si rivela come apertura, capacità di dono e possibilità di comunicazione. La divinità è, nella sua struttura profonda, propensione infinita ad uscire da sé per esistere con e per l’Altro, in un amore donato, condiviso e proposto. Chi vede Gesù crocifisso è in grado di comprendere chi è Gesù per il Padre e chi è Dio per Gesù.
Proprio perché Gesù non si è ripiegato su se stesso egli, come Figlio di Dio, vive fino alle estreme conseguenze la vocazione integrale dell’uomo: l’uomo che sa che la via della gioia è la via della condivisione, del dono di sé fino alla croce. Ed è proprio per questo che Dio si riconosce nelle parole di Gesù, nelle sue azioni, nella sua stessa morte.
Qui Dio appare come Colui che si rivela, che dona la propria vita, come Colui che è uno «con» Gesù fin dalle origini. L’incarnazione del Figlio ci attesta che Dio è Padre, che Dio è comunione e comunicazione. L’uomo, i credenti sono chiamati a diventarlo.


EPIFANIA – 6 GENNAIO

PER COMPRENDERE LA PAROLA

PRIMA LETTURA
È la meditazione di un profeta sulla sorte di Gerusalemme. Egli assiste forse al sorgere del sole sulla città, spettacolo che si offre ancor oggi ai turisti. Mentre le valli che la circondano sono ancora immerse nell’oscurità della notte, le mura della città riflettono invece lo splendore del sole che sorge ed appaiono tutte luminose. Trasportando questo spettacolo in una visione escatologica, procedimento classico nei profeti di Sion (Ez 40-48; Sal 87), Isaia immagina che Gerusalemme diventi la luce del mondo; ma non è più dal sole, bensì da Iahvè stesso che le viene questo irradiare meraviglioso.
Le caratteristiche di questa nuova Gerusalemme sono soprattutto cultuali: la «gloria» è la manifestazione della «presenza» di Dio nel tempio suo (Ez 1,4-28; 43,1-59; Sal 26,8; 63,3). Questa «presenza» di Iahvè è una caratteristica del culto di Sion (Dt 12,5). Il «raduno» di tutte le tribù (2 Re 23; Dt 4,10-13; Sal 122,4) è imposto dalla legge alle feste principali del calendario giudaico, e i doni che le nazioni portano a Gerusalemme sono profumi destinati alla liturgia dei sacrifici d’incenso1 per i quali Iahvè non ha nascosto le sue preferenze (Mal 1,11). Ma se gli elementi del culto sono ristabiliti in Gerusalemme, attorno alla gloria di Iahvè ritornata in Sion, il raduno che si effettua (v. 4) non è più soltanto quello delle tribù, ma quello delle nazioni (v. 3). La nuova liturgia riguarda il mondo intero. La partecipazione delle nazioni a questa «assemblea» (Zc 14,15-20) è ancora concepita in dipendenza dalle tribù giudaiche, e le nazioni hanno soprattutto il compito di riportare i figli di Gerusalemme nelle mura della loro città. Tuttavia questo costituisce un primo passo verso l’universalismo cristiano. Ma per giungere a questo universalismo è stata necessaria per Israele l’esperienza della dispersione in mezzo alle nazioni.
La visione del profeta che descrive la salita delle nazioni verso Gerusalemme non vela completamente il particolarismo da cui questo testo è ancora ispirato. Come il Sal 71 promette un re a cui tutti gli altri re della terra pagheranno il tributo, così il profeta vede in Sion la città in cui l’universo si raduna per recarvi le sue ricchezze e offrirvi i suoi sacrifici. Però questo universalismo è troppo centripeto: l’universalismo della salvezza si profila e si realizza partendo da Sion (Dt 7,1-16; 23,4-9; Ne 10; Sir 36,1-17). I primi cristiani hanno effettivamente creduto che Gerusalemme sarebbe stata il centro dell’unità religiosa. Paolo stesso lo ha creduto. Quando procede alla colletta per Gerusalemme, egli pensa alla profezia che stiamo esaminando: le ricchezze confluiranno verso Sion (Rm 15,26-28; 1 Cor 16,4). Ma essi saranno presto portati a sbarazzarsi di un concetto troppo rigido di centralizzazione e a riconoscere che ogni Chiesa locale è, per l’Eucaristia, segno del raduno universale, poiché gli organismi centrali, non sono altro che un servizio a disposizione delle Chiese locali e della loro comunione.

SALMO
Il salmo, in alcuni suoi versetti, guida la nostra risposta a Dio. Tutti siamo invitati a glorificarlo per i benefici a noi concessi nel Cristo. Con le parole del ritornello affermiamo e ripetiamo la nostra fede nell’incarnazione del suo Verbo.

SECONDA LETTURA
Questo passo introduce la conclusione della parte dottrinale e prepara la preghiera finale (Ef 3,14-20). Paolo ritorna ancora alla contemplazione del «mistero» (v. 3) dell’introduzione dei pagani nella Chiesa e del «ministero» (v. 7) apostolico che gli è toccato per realizzare questa volontà di Dio (cf Ef 1,3-14; 1,18-23; 2,1-2.14-22).
Agli occhi di Dio il mistero della Chiesa è il suo rapporto con il mondo. L’essenza di questo mistero è la preparazione dell’ingresso degli uomini nel Regno di Dio; dentro la Chiesa poi il ministero apostolico è il servizio in cui degli uomini richiamano senza posa ai loro fratelli in Cristo la missione di dialogo con il mondo e di accoglimento delle mentalità e delle culture umane.
Paolo designa questa missione col nome di «mistero» perché l’intenzione di Dio di edificare una Chiesa con questa responsabilità non è apparsa di colpo: l’elezione d’Israele sembrava, al contrario, significare che la volontà di Dio era limitata alla promozione di un solo popolo. Non fu lo sforzo di qualche profeta universalista alla fine dell’Antico Testamento che poté recarvi grandi mutamenti, tanto era radicato il particolarismo dei loro uditori.
Nascosta così durante tutta la storia d’Israele, questa volontà di Dio si è manifestata infine nella persona di Gesù, nell’attenzione che egli da vivo rivolse anche ai pagani, e soprattutto nel potere di cui dispone dopo la sua risurrezione, con un corpo che nulla può più limitare, di incontrare tutti gli uomini e di unirli a sé nell’amore.

VANGELO
Da Mt 1,18 a Mt 2,23, l’evangelista raggruppa cinque episodi dell’infanzia di Gesù e stabilisce un parallelismo con cinque testi dell’Antico Testamento (procedimento del midrash). Il suo scopo è quello di ritrovare nell’infanzia di Gesù i segni ed i presentimenti di una vocazione che realizzi tutte le vocazioni antiche: nuovo Mosè, sfuggito come lui al massacro, come lui chiamato dall’Egitto, come lui illuminato miracolosamente al momento della nascita; nuovo Davide che realizzerà meravigliosamente la profezia dell’Emmanuele (Mt 1,20-24) e su cui brillerà la stella messianica di Nm 24,17; nuovo Salomone la cui sapienza attira i sapienti d’Oriente, così come attirò la regina di Saba (1 Re 10,1-13); nuovo Elia, infine, che praticherà il nazireato profetico (Mt 2,23).
a) Il racconto dell’adorazione dei Magi si presta ad un’altra considerazione. Matteo scrive per cristiani di Palestina, cioè per Giudei passati al cristianesimo. Essi hanno bisogno di rafforzare la loro nuova fede con la convinzione che rimangono fedeli al dinamismo delle antiche promesse. La prima preoccupazione dell’evangelista è quella di mostrare loro che la nascita di Cristo attira a sé i fasti della dinastia regale. Unendo 2 Sam 5,2 con Mic 5,1 (v. 6), Matteo dimostra che Cristo appartiene alla dinastia davidica e che contemporaneamente risolve il doloroso problema dell’unità del popolo fra Giuda ed Israele. Così Cristo compie simultaneamente una profezia sulla restaurazione di Giuda (Mic 5) e realizza una parola delle tribù del Nord (Israele) che invitano Davide a regnare su di esse. La fedeltà dei Giudei alle profezie li invita a riconoscere in Gesù quel Messia che attendono.
b) Come spiegare che i Giudei, in generale, non si fanno cristiani? Per rispondere a questa domanda che si pongono i cristiani, Matteo inserisce nel suo testo l’episodio di Erode. Si viene allora a costatare che i primi ad interessarsi della nascita del Messia e ad andare alla sua «ricerca» sono dei pagani. Invece, coloro che, per professione, dovrebbero essere al corrente di questa nascita, gli scribi ed i sacerdoti, sanno molto bene dove il Cristo deve nascere, la loro scienza è aggiornata, ma sono senza fede e non si disturbano per andare a vedere il Bambino. Erode fa conto di recarvisi, ma si sa con intenzione omicida.
L’essenziale del quadro di Matteo verte dunque su una contrapposizione fra il rifiuto dei Giudei e la fede dei pagani. Dinanzi allo spettacolo di questi pagani che adorano Gesù, Matteo si ricorda della profezia di Is 60,6 (i regali) e ne segnala la realizzazione. I pagani divenuti cristiani hanno così un nuovo motivo per rafforzare la loro fede: le stesse profezie giudaiche danno loro ragione annunciando come le cose sarebbero avvenute. Notiamo d’altronde che in tutto il suo Vangelo Matteo si preoccupa di spiegare questo rifiuto dei Giudei e questo accedere dei pagani alla fede cristiana. Dopo la risurrezione, egli mette nuovamente in scena i sacerdoti che si rifiutano di credere (Mt 28,11-15) e contrappone loro l’invio dagli apostoli alle nazioni (Mt 28,16-20).
La lezione essenziale di questo Vangelo sembra dunque chiara, anche se si appella ad un midrash più antico: i Giudei che conoscevano le profezie attraverso la loro conoscenza scritturistica, non hanno riconosciuto il Messia. Questa mancanza di fede toglie loro ogni diritto; invece le nazioni che non conoscevano nulla dei profeti entrano subito nella fede.
c) Narrando l’episodio dei Magi Matteo ha voluto fare un commento dell’episodio di Balaam. Da una parte e dall’altra ci sono dei magi pagani chiamati da un re straniero (Nm 22,2-4) per maledire il popolo (o il suo re); da una parte e dall’altra i magi adottano una posizione contraria e benedicono colui che erano incaricati di condannare; in tutte e due annunciano un astro di luce abbagliante (Nm 24,17; cf Mt 2,2); in tutte e due, infine, i magi se ne ritornano da dove erano venuti senza essere molestati (Nm 24,25; Mt 2,12).
Con questo midrash della storia di Balaam, Matteo rivela chiaramente la sua intenzione: associare fin dall’inizio della vita di Gesù i pagani all’estensione universale del suo regno.
Midrash popolare, il racconto di Mt 2,1-12 inculca l’idea dell’universalismo del nuovo regno. Il fatto che non tutti i suoi elementi siano storici non pregiudica l’intento. Forse la critica proverà un giorno che i Magi non sono mai stati a Betlemme e che la stella non è mai esistita? Noi non ignoriamo che il midrash è un genere letterario che permette l’uso di elementi leggendari se servono alla buona causa. Teniamoci dunque all’essenziale: il bambino adorato dai Magi instaura un regno universale.


PER ANNUNCIARE LA PAROLA (piste di omelia)

La Chiesa ha fallito nella sua missione universalista? È fatta perché tutti i popoli si sentano in essa come a casa loro. Ora, dopo ventun secoli di storia, la troviamo legata al mondo culturale dell’uomo bianco. Ai popoli dell’Asia e dell’Africa, il cristianesimo appare come la religione del continente europeo (e delle estensioni europee nelle Americhe). Le minoranze cristiane asiatiche ed africane trasmettono la loro fede attraverso categorie mentali ed un apparato istituzionale che portano lo stampo dell’Occidente.
A coloro che, di fronte ad un simile risultato, contestano alla Chiesa la sua aspirazione universalista, il cristiano deve essere in grado di rispondere con piena lucidità. Deve poter spiegare perché il progetto di cattolicità che anima la Chiesa non abbia dato apparentemente frutti maggiori.
È necessario ribadire che l’apertura universalista è uno dei caratteri essenziali del cristianesimo: tutte le nazioni sono chiamate ad entrare nel Regno inaugurato in Gesù Cristo, e il dovere missionario è assolutamente primo nella Chiesa.

Cristo, luce delle nazioni
È nella prospettiva del disegno universalista di Dio che Gesù inaugura il Regno tanto atteso. Un Regno aperto a tutti. Gli interdetti cultuali sono aboliti: ciechi, zoppi, lebbrosi, sono invitati al banchetto. Gesù frequenta i pubblicani ed i peccatori; è venuto per essi. Le nazioni stesse sono tutte convocate.
Gesù concentra il suo ministero sul popolo eletto, poiché di questo popolo egli vorrebbe fare lo strumento missionario del Regno. Mentre il popolo eletto è continuamente tentato a considerare l’elezione pienamente gratuita di Dio come un privilegio, Gesù tenta di fargli capire che l’elezione divina è innanzitutto fonte di responsabilità.
Tuttavia, molto presto, non è più possibile avere dubbi: il popolo eletto non accetta di entrare nelle vedute di Dio. Questo rifiuto accentua in qualche modo la mira universalista di Gesù. Preparato per gli eredi, il Regno sarà loro tolto e dato alle nazioni. Gli episodi evangelici che riferiscono i contatti di Gesù coi pagani sottolineano a che punto il Messia è colpito dalla loro fede e dalla loro accoglienza senza riserve della Buona Novella.
Mentre si afferma questa apertura universalista, si rivela nello stesso tempo con chiarezza la natura propria del Regno. Aperto a tutti i popoli, il Regno non è di questo mondo; è disceso fra gli uomini, ma sfugge totalmente al loro potere. L’accesso alla Famiglia del Padre deriva dalla gratuità totale di Dio. In una simile prospettiva, tutti i privilegi sono aboliti.
Di questo Regno universale, Gesù è il perno. È nella sua Persona che il Regno è costituito nella sua realtà trascendente ed immanente insieme. Respinto dal suo popolo, Gesù fa il dono della sua vita a vantaggio di tutti. Nella luce del mistero pasquale, il particolarismo giudaico è definitivamente superato.

La Chiesa dei Quattro-Venti
La prima generazione cristiana prende a poco a poco consapevolezza di ciò che significa concretamente l’abolizione dei privilegi giudaici. Ci vorrà molto tempo perché la Gerusalemme terrestre ceda veramente il posto a quella celeste e perché i cristiani nati nel paganesimo ottengano pieno diritto di cittadinanza nella Chiesa della Pentecoste. È progressivamente che si scorgono tutte le conseguenze dell’universalismo del cristianesimo. Eppure era essenziale che avvenisse questa presa di coscienza. S. Paolo vi ha contribuito molto: secondo lui, la croce di Cristo è realmente la definitiva eliminazione dei muri di separazione fra i Giudei e le nazioni.
Sul piano dottrinale, avviene un approfondimento parallelo. In S. Paolo, bisogna aspettare le epistole della prigionia perché la Chiesa appaia pienamente svincolata dai suoi legami troppo terrestri con la Chiesa-madre di Gerusalemme e perché si presenti come quella che è salita con Cristo presso il Padre.
L’universalismo della Chiesa comporta una duplice esigenza. La Chiesa non si addiziona coi popoli della terra: individui, popoli e culture sono tutti chiamati ad occupare il loro posto nella Chiesa. Ma la Chiesa è una realtà storica: per realizzare la sua missione, essa mutua costantemente dalle «ricchezze» delle nazioni, e prende il volto concreto dei popoli in cui s’incarna. Per tutti i mondi culturali, essa fa ciò che Gesù ha fatto per Israele: pone le sue radici nel dinamismo spirituale di questi mondi, ma lo fa in modo tale che la sua incarnazione sia essa stessa rivelatrice della sua trascendenza propria. Dappertutto dove la Chiesa si localizza, ha la missione di apparire in quel luogo come la Chiesa aperta a tutti.
Non bisogna illudersi. Un processo di degradazione minaccia la Chiesa in ogni sua conquista. I cristiani rischiano sempre di confondere la Chiesa universale col volto storico che ha assunto presso di essi. Ogni volta, l’universalismo vero si trova in pericolo. Invece, l’estensione spaziale della Chiesa e l’accoglienza nell’unità della Chiesa di una larghissima diversità costituiscono la garanzia di un universalismo autentico.

La convocazione universale alla salvezza
L’universalismo della Chiesa sbocca necessariamente nella missione. Alle origini della Chiesa, la presa di coscienza della necessità e dell’urgenza della missione ha seguito passo per passo la percezione delle condizioni del vero universalismo. All’inizio, sono gli avvenimenti che provocano l’«uscita» da Gerusalemme; ma, quando sarà fondata la Chiesa di Antiochia, è la stessa comunità radunata a mandare in missione Barnaba e Paolo. A partire da quel momento, la missione sorge come un’esigenza interna.
La Chiesa è essenzialmente missionaria perché la relazione col mondo non cristiano è costitutiva del suo essere. Essa ha l’incarico di stabilirsi dovunque sia necessario affinché la convocazione divina alla salvezza in Gesù Cristo raggiunga effettivamente tutti gli uomini, qualunque sia la loro identità spirituale o socio-culturale. Per questo fine, essa si dà continuamente un volto nuovo, inventa continuamente nuovi modi di aggiornamento, attingendo nel tesoro della sua tradizione viva e stando in ascolto della grazia che è in atto nel mondo non cristiano e che deve logicamente fruttificare nella Chiesa.
Non tutti i membri del Corpo di Cristo hanno lo stesso ruolo da compiere nell’opera missionaria che riguarda tutti. Certuni sono chiamati a compiere un ruolo che si può considerare come missionario in senso stretto, perché la situazione che occupano, oppure dove sono stati mandati, li invita a portare nel loro cuore e nella loro carne una vera appartenenza alla Chiesa. Attraverso questa via difficile della duplice appartenenza, il mistero di Cristo si trasmette attivamente al popolo da evangelizzare. Anche se non tutti sono missionari in senso stretto, la funzione missionaria della Chiesa deve essere, per tutti, il principio regolatore dei loro comportamenti quotidiani. Nella Chiesa, la funzione missionaria non è una funzione accanto ad altre: è la chiave di volta di tutto l’organismo.
La storia della Chiesa ci manifesta ampiamente che, ogni volta che il mondo noto dei cristiani si è allargato od un ordine nuovo si è sostituito ad uno antico, sono sorti degli uomini per prendere a loro carico il dovere missionario che si imponeva. Però, affinché potessero riuscire nella loro impresa, sarebbe stato necessario, ogni volta, che il corpo dei cristiani entrasse nel loro solco…
Un compito missionario nuovo si presenta ad ogni generazione cristiana. Quello che si offre oggi è difficile, perché i mondi culturali si trovano impegnati in un raffronto inevitabile. Ed è proprio in questo che bisogna rivelare che Gesù Cristo ha demolito con la sua croce (che è pure quella della Chiesa) tutti i muri di separazione fra gli uomini. In questa prospettiva, i missionari di domani non dovranno essere innanzitutto i servi dell’intercomunione a servizio di un’unica missione universale?

L’Eucaristia, mistero di cattolicità
L’ambizione di ogni celebrazione dell’Eucaristia è un’ambizione di universalismo. L’equazione fra l’Eucaristia e la Chiesa appartiene ad una tradizione costante. Celebrare in qualche parte l’Eucaristia significa far nascere la Chiesa, consolidare il mistero della convocazione universale alla salvezza in Gesù Cristo. Tutti coloro che si trovano nel campo di questa convocazione sono invitati al banchetto, qualunque sia la loro diversità, qualunque cosa li possa separare. In breve, è lo stesso progetto di cattolicità della Chiesa che prende consistenza nella celebrazione eucaristica.
È importante che questo dinamismo «cattolico» dell’Eucaristia si verifichi nello stile delle celebrazioni, e più largamente, in tutto l’organismo delle istituzioni ecclesiali. Troppi raduni eucaristici portano esclusivamente il segno sociologico di coloro che vi partecipano. Aperti in teoria a tutti, non sono poi così di fatto: gli «abituati» vi si sentono a casa loro, ma gli altri hanno l’impressione di essere degli estranei. La storia spiega perché le nostre celebrazioni eucaristiche sono in generale così poco l’espressione della cattolicità della Chiesa. Ma, oggi, si tratta dell’avvenire della missione: occorre che il segno distintivo dell’Eucaristia, cioè la sua cattolicità, appaia in tutta la sua ampiezza. Quando i cristiani si radunano per partecipare insieme alla Parola ed al Pane, bisogna che sappiano che la comunione offerta loro include l’insieme dell’umanità.


(tratto da: M. Gobbin, Omelie per un anno – vol. 1, anno A, tempi forti – Elledici 2003)