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3. Commento alle Letture – 30ª DOMENICA T.O.

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30ª DOMENICA T.O.

(Giornata missionaria mondiale)

BISOGNOSI DI DIO

La Scrittura, quando letta e interpretata nella fede, è rivelazione di Dio all’uomo e dell’uomo a se stesso. Nella Scrittura, lì dove essa è rivelazione che Dio fa dell’uomo all’uomo, troviamo anche le patologie dell’umanità: sia quelle che feriscono i rapporti dell’uomo con gli altri uomini, o con il creato; sia quelle che feriscono il rapporto dell’uomo con Dio.

Il rapporto uomo-Dio
Un esempio di quest’ultimo caso è dato dal versetto che precede quello con cui inizia la prima lettura di questa domenica: «Non corromperlo [Dio] con doni, perché non li accetterà, e non confidare in un sacrificio ingiusto» (Sir 35,14-15). Il Siracide ammonisce il credente che a nulla vale cercare di ingannare Dio. Egli non si lascia comprare da doni; non si lascia sedurre da un culto che offra qualcosa che non rispecchi la giustizia della vita. In termini moderni potremmo dire: Dio non apprezza un culto che dissoci rito e vita.
Il rapporto con Dio si dà nella verità. Nel giudicare, Dio osserva la vita nella sua sostanza, imparzialmente (cf Sir 35,15).
Per certi versi si potrebbe dire che nella sua giustizia Dio ha comunque delle preferenze: predilige il povero e l’umile; gli ultimi, coloro che non contano davanti agli uomini (cf Sir 35, 17;21).

Dalla vita alla preghiera
A questa attenzione alla sostanza della vita si rifà l’inizio del Vangelo di oggi che, insieme con la conclusione, è la prospettiva dalla quale leggere e interpretare la parabola narrata. Il testo è la continuazione della catechesi sulla preghiera già iniziata domenica scorsa sulla necessità di pregare sempre e fiduciosamente.  La parabola del fariseo e del pubblicano aggiunge che la preghiera, per essere vera, richiede un’opportuna disposizione interiore. I due atteggiamenti, presunzione di giustizia e disprezzo  del prossimo (cf Lc 18,9), si accompagnano non accidentalmente. Non vera giustizia, ma presunzione di essa; e chi presume di sé, si erge a giudice degli altri, almeno perché non conosce se stesso. Chiunque conosca bene se stesso sa che ha ben poco da giudicare.

Fariseo e pubblicano: atteggiamenti del corpo
La parabola del fariseo e del pubblicano richiama e sviluppa l’ultimo versetto del vangelo della scorsa settimana (cf Lc 18,8). La fede implica il rapporto con Dio, con se stessi e con gli altri. La preghiera non può che essere continuazione e conferma  di questo rapporto, sano o patologico che sia.
Fariseo e pubblicano rappresentano plasticamente due atteggiamenti che si esprimono sia con il corpo sia con le parole. L’atteggiamento del corpo del fariseo (cf Lc 18,11) è quello dell’autosufficienza, e la sua preghiera è autoreferenziale. Dio, nel pregare del fariseo, è un accidente. Uomo pio e ben istruito, inizia, certamente, con una benedizione, ma essa è solo l’avvio di un fastidioso monologo che al centro non ha Dio, bensì il pronome «io». Dio è mero spettatore delle prestazioni religiose del fariseo. Il suo atteggiamento esprime un radicale narcisismo, incapace di un io onesto e solidale. Le parole infatti,  a partire dalla lode a Dio, scivolano nell’esaltazione di sé nel confronto con gli altri, meno meritori. Il fariseo non è un personaggio: è un tipo. È il tipo dell’esibizionista religioso, non certo dell’uomo di fede.
Il pubblicano, invece,  è descritto come spaesato nel contesto. Sta con gli occhi bassi, si batte il petto, si ferma a distanza, consapevole della propria indegnità. Anche il pubblicano  è un tipo: chi è degno di stare al cospetto del Santo,  se non per benevolenza?

Fariseo e pubblicano: le parole
Le parole dei due protagonisti rivelano il loro cuore. Il fariseo vanta una vita corretta, addirittura supererogatoria rispetto alla legge in fatto di digiuno e decime. Eppure questo inventario di meriti, elencato soprattutto nel confronto con gli altri (cf Lc 18,11), fa del fariseo il perfetto tipo dell’ateo: è talmente narcisista che non ha bisogno di Dio; prega per elogiarsi; per lui la salvezza è ricompensa, non dono.
Il pubblicano, invece, riconosce la propria povertà, la propria indigenza radicale, quella che muove la preghiera che, secondo il già citato Sir 35,21, viene ascoltata dal Signore. Consapevole del proprio peccato prega, diversamente dal fariseo, rivolgendosi a Dio, perché da lui, con l’ammissione del proprio peccato, invoca il perdono, e attende – non pretende – la salvezza (cf Lc 18,14). Del fariseo Gesù non biasima la vita, ma la superbia. Del pubblicano non elogia la vita, ma l’umiltà.